L’albero della vita dentro di noi
Alcune sere fa, mentre mangiava a morsi un limone, mio figlio ha ingerito involontariamente anche un seme, esclamando subito dopo: “Va bene, vorrà dire che mi crescerà nello stomaco l’albero della vita!”
L’ originalità di questa frase, pronunciata da un bambino di 10 anni, mi ha colpita a tal punto che la mattina seguente, svegliandomi, ho collegato il sogno fatto nella notte alla sua esclamazione.
Il mio sogno riguardava infatti l’ episodio dell’epopea di Gilgamesh in cui l’eroe va alla ricerca della Pianta della Vita.
Nel mito sumero che risale a circa 5000 anni fa il re di Uruk, il cui nome è Gilgamesh, vede morire il suo amato amico Enkidu.
Non riuscendo ad accettare l’idea della Morte, il re decide di andare alla ricerca della Pianta che rende immortali.
Così, dopo varie peripezie e un incontro con la divinità che cerca inutilmente di scoraggiarlo ad affrontare l’impresa, il protagonista raggiunge il saggio Utanapishtim (il Noé della tradizione mesopotamica, sopravvissuto al diluvio, il cui appellativo significa “il Lontano”).
Questi, dopo avere a sua volta cercato invano di convincere l’eroe a rinunciare alla sua ricerca, finisce per impietosirsi rivelandogli che la pianta da lui desiderata si trova in fondo al mare.
Gilgamesh si tuffa allora nell’Apsu (l’abisso marino in cui dimora il dio Enki, il signore di ciò che sta sotto), raggiunge il fondale dove è la Pianta della Vita e con essa risale in superficie, lasciando andare i suoi simboli regali di potere, Pukku e Mekku (tamburo e bacchetta), che gli erano serviti come zavorra nella discesa.
Sulla via del ritorno verso Uruk, l’eroe si ferma però a riposare presso una fonte, e in quel frangente un serpente si avvicina alla pianta, l’annusa e la divora. Il rettile cambia subito pelle, ringiovanisce e fugge via.
A questo punto nel testo si legge: “Gilgamesh si sedette e pianse, le lacrime scorrevano dalle sue guance.(…) Per quale scopo è scorso il sangue nelle mie vene? Non sono stato capace di ottenere alcunché di buono per me stesso”. L’eroe ha preso coscienza: una vita che duri in eterno non è il suo destino. La Pianta della Vita rappresenta tuttavia, a mio avviso, qualcos’altro di più profondo e significativo da un punto di vista evolutivo: il dinamismo vitale in continua trasformazione, la possibilità di ascesa verso il cielo, verso il divino, solo dopo aver raggiunto l’abisso ed aver rinunciato ai propri ego (i simboli di potere Pukku e Mekku usati come zavorre nella discesa).
Quanto all’archetipo dell’albero della vita, lo ritroviamo in molte antiche culture. Pensiamo ad esempio al sicomoro degli Egizi, al frassino Yggdrasil nella cultura nordica, all’ albero sacro del Paradiso terrestre, o all’albero sephirotico della Cabala ebraica.
Ebbene io credo che questo simbolo universale, che ben rappresenta il ciclo perenne di “vita/morte/vita” – ciclo naturale che appartiene alla sfera materiale di questa realtà e che al tempo stesso rappresenta anche il suo superamento – non debba essere ricercato al di fuori di noi.
Vano e inutile è andare a cercare “l’albero della vita” in un luogo o in un tempo lontani da noi, poiché la risposta ai nostri interrogativi non è esterna al nostro essere, essendo da sempre custodita al nostro interno.
La Pianta della Vita risiede nel nostro Sé più profondo e se ne sta nascosta in fondo a un abisso, che solo potremo raggiungere se sapremo “scendere” consapevolmente verso le nostre origini, attraverso le nostre radici …
Il racconto della discesa nell’Apsu di Gilgamesh trova secondo me un parallelo nell’episodio della “discesa agli inferi” di Cristo, riferito da Matteo nel Nuovo Testamento: “Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così il Figlio dell’uomo starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti” (Mt 12, 40).
Un ulteriore interessante confronto si può trovare in san Paolo il quale, riferendosi ai tre giorni trascorsi tra la morte e la resurrezione, così parla di Gesù: “Ora, questo <è salito> che cosa vuol dire se non che egli era anche disceso nelle parti più basse della terra?” (Ef 4, 9)
E’ evidente anche il collegamento con certi rituali di morte e rinascita, a cui erano sottoposti gli iniziati delle antiche tradizioni misteriche, come il Mitraismo e i Misteri Eleusini.
“Discese agli inferi” sono narrate da molti miti e culti precristiani. Si tratta sopratutto di viaggi nel mondo dei morti effettuati da eroi o da divinità.
Pensiamo ad esempio al viaggio di Persefone (Core) , la giovane rapita da Ade che la disperata madre Demetra (Cerere) riuscirà a far ritornare sulla terra, ma solo per un periodo dell’anno, poiché sua figlia ha mangiato il seme di melograno che la farà tornare per il resto dell’anno nel regno dei morti. E pensiamo al viaggio di Orfeo al quale fu concesso di ricondurre la sua sposa Euridice nel regno dei vivi a condizione che durante il viaggio lui non si voltasse a guardarla.
Teseo ed Eracle scendono pure nel regno dei morti, per ritrovare la propria identità divina. Ed anche Dioniso discende nell’Ade per rendere immortale sua madre Semele e portarla nell’Olimpo tra gli dei.
E poi c’è Ulisse, che scende nell’Ade per sapere dall’indovino Tiresia se mai finirà il suo viaggio e se mai tornerà a Itaca (Odissea XI, 90-137). Ed Enea, il quale verrà accompagnato dalla Sibilla di Cuma nell’Oltretomba per incontrare suo padre Anchise (Eneide VI, 237-31)
Metafore di viaggi interiori, a mio avviso, che ci fanno capire l’importanza per l’essere umano di saper “scendere” dentro di sé, in un difficile viaggio verso il profondo e l’ignoto, attraversando le nostre ombre e ripercorrendo le nostre radici, per giungere a conoscere l’Albero della Vita che ci permetta di risalire vittoriosi, finalmente liberi da ogni zavorra (Pukku e Mekku), e soprattutto consapevoli del nostro destino e della nostra natura divina.
Antonella Bazzoli, 15 gennaio 2016