Un santuario fieristico nello stato dei Baglioni
Fra le tante cose che Bonifacio IX, al secolo Pietro Tomacelli, dovette affrontare nel suo pontificato, vi fu anche una piccola questione che riguardava la chiesa di San Claudio a Spello. Nel 1392, infatti, il papa napoletano concesse un’indulgenza al santuario dedicato al protettore degli scultori, degli scalpellini e dei marmisti che, passato in gestione alla comunità spellana proprio in quel torno di tempo, si avviava a diventare uno dei centri propulsivi dell’antico municipio romano.
Già qualche anno prima, nel 1389, era avvenuto un passaggio fondamentale nella storia di Spello, un segno del mutar dei tempi che prefigurava nuovi, insospettabili scenari politici. I Baglioni erano stati nominati vicari della città, e da quel momento i nobili perugini avrebbero lentamente, ma inesorabilmente, dato inizio ad una scalata di potere che li avrebbe condotti ai vertici del governo municipale. Un processo di formazione di un feudo familiare – definito significativamente “lo Stato dei Baglioni” – che nei momenti di massimo splendore avrebbe raggiunto una ragguardevole estensione, fagocitando, via via, Collepino, Armenzano, Assisi, Torgiano, Bettona, Bastia, Cannara, Collemancio, Limigiano, Bevagna e Collepepe. Va da sé che una tale ascesa doveva passare per alcuni percorsi obbligati, e tra questi il piccolo santuario extra moenia di San Claudio, si avviava ad assumere un ruolo non trascurabile.
Il contesto ambientale circostante – rimasto intatto per secoli e oggi in parte snaturato da una sventata politica di concessioni edilizie – vanta una prima frequentazione umana nelle grotte preistoriche, situate sul versante meridionale dell’arco submontano. Scavata nella roccia calcarea di età preaugustea lungo il crinale della collina, la “Via Sacra” congiungeva l’abitato romano col Sacrario Federale della Gens Umbra (ubicato dove oggi sorge Villa Fidelia).
La chiesa, nata alla fine dell’XI secolo come possesso dell’abbazia camaldolese di San Silvestro di Collepino, sul primo scorcio del XIII secolo venne a costituire una tappa del percorso sacro, cadenzato da una fitta rete di santuari e spazi cultuali che, seguendo il tracciato dell’ antichissima via Flaminia, conduceva verso la tomba di Francesco d’Assisi e, al contempo, veniva a collegarsi ad uno dei terminali del Tracciato Luaretano, ubicato nella vicina Foligno. Luogo ideale di raduno, questo era dunque San Claudio, dato che nei pressi sorgevano i resti imponenti dell’anfiteatro romano, anello ideale nel quale situare un percorso fieristico e dove scambiare merci ed animali. A pochi metri dall’edificio, in direzione Assisi, erano ancora in essere gli avanzi del teatro romano, mentre le rovine del tempio federale degli umbri occupavano la parte settentrionale dell’emiciclo naturale che offriva referenze ottimali, fatte di sacralità antichissime ed efficaci ripari.
Passando attraverso la nitida facciata in pietra calcarea subasiana, si entra all’interno di un monumento asimmetrico, il San Claudio appunto, con colonne lungo la nave sinistra e pilastri sul lato opposto, a denunciare un frettoloso processo costruttivo farcito di materiali di riutilizzo, provenienti da preesistenti costruzioni classiche.
Sulle superfici murarie ecco apparire affreschi votivi colmi di graffiti che oscillano tra la fine del XIV secolo e gli inizi del XV. Opere di chiara impronta devozionale, sovrastate da un ciclo di ben altro peso, chiamato ad enunciare il nuovo ruolo assunto dal monumento dopo la concessione dell’indulgenza papale. Sopra gli archi della navata sono infatti raffigurati i santi che davano il nome alle dodici Societates di Spello.
Dell’intero complesso restano solo cinque immagini, relative alle Societates di San Rufino, Santa Maria Maggiore, Santa Croce, Sant’ Andrea e Santa Maria di Vallegloria. Sono perdute le figure dei santi Severino, Stefano, Sisto, Martino, Sant’Angelo, Santa Maria di Prato e San Lorenzo, che completavano l’elenco riportato negli Statuti Comunali del 1360.
A questi dipinti si affianca una complessa decorazione nella zona dell’abside: in alto il Cristo seduto in un nimbo sorretto da quattro angeli; immediatamente sotto, al centro, la Madonna in trono; ai lati, sulla sinistra, San Claudio e San Matteo, sulla destra, San Giovanni Battista e San Giacomo apostolo, questi ultimi ormai irrimediabilmente perduti. Sotto la prima figura si legge la data di esecuzione dell’opera, MCCCLXXXXIII. Ancora più in basso si ammirano, in due tondi posti negli angoli mistilinei sopra l’arco absidale, l’Angelo Gabriele e l’Annunziata, mentre nel catino rimangono significativi frammenti di una Crocifissione.
Un complesso figurativo di tutto rispetto che, nella sua coerente celebrazione dei numi tutelari di Spello e dei culti connessi alla chiesa di San Claudio, denuncia il carattere essenzialmente politico dell’impresa, realizzata esattamente un anno dopo la concessione dell’indulgenza da parte di Bonifacio IX. A tutto ciò va aggiunto che il pittore responsabile di questa campagna figurativa di sapore squisitamente politico, fu Cola Petruccioli da Orvieto. Da molti anni residente a Perugia, l’artista era entrato in contatto con i maggiori esponenti dell’aristocrazia cittadina, tra cui ovviamente anche i membri della famiglia Baglioni.
E’ dunque naturale pensare che l’operazione fu orchestrata dai componenti di quella potente dinastia che dirottarono in un piccolo santuario rurale uno dei pittori più prestigiosi del tempo, per celebrare i santi tutelari di un sistema politico che essi stessi tendevano a soffocare.
Corrado Fratini – 8 novembre 2007