Alle “bocche” del Timavo

Nella regione friulana c’è un fiume, il Timavo, che divide la zona calcarea del Carso da quella lagunare di Monfalcone. Il fiume gode di una particolare caratteristica, nasce dal monte Nevoso in Slovenia e, dopo un primo percorso sub divo, sembra essere inghiottito dalla grotta di San Canziano. Continua quindi a scorrere per circa 40 km. sotto terra per risorgere fragorosamente nei pressi di S.Giovanni di Duino, da cui prosegue il suo corso per sfociare nel golfo di Trieste.
La ricchezza delle sue acque e la sua vicinanza al mare permise ai Greci di utilizzarlo come percorso privilegiato che conduceva alle “regioni dell’ambra”, dalle quali essi importavano oltre a questa pregevole pietra, anche altri materiali preziosi, come oro ed argento che poi avrebbero lavorato in madre patria e in Magna Grecia.
Il geografo greco Strabone, vissuto nel I sec. a.C., ricorda le sette bocche del Timavo e riconduce a questo luogo la leggenda di Antenore che avrebbe fondato la città di Padova e che, dopo aver attraversato l’Adriatico, si sarebbe fermato alle foci del fiume e qui avrebbe eretto un tempio votivo per Diomede.

Il numero delle risorgive non è documentato con certezza dagli antichi geografi. Secondo alcuni erano sei, secondo altri sette e per altri ancora nove. Attualmente se ne individuano solo tre e la cosa non ci meraviglia se consideriamo i cambiamenti morfologici che il luogo ha subito col passare dei secoli. Tuttavia la caratteristica di risorgere dopo un lungo interramento, fenomeno che gli antichi popoli non riuscivano a spiegare e che considerarono magico e misterioso, determinò, proprio sul luogo delle risorgive, definite “ingresso agli Inferi”, la nascita di numerose leggende.

Non mancano interessanti reperti archeologici a testimoniare la sacralità del luogo. Nei pressi della prima risorgiva troviamo un altare dedicato al dio Timavo, una divinità fluviale il cui nome, con alcune varianti (Temavi o Temau), ricorre in altri territori della regione friulana.
Il ritrovamento di un “mortarium”, una specie di catino utilizzato durante i sacrifici, risalente pure al I sec. a.C., attesta con un’ iscrizione il culto del dio Saturno (numen Saturni). Un’altra epigrafe votiva è rivolta ad Ercole ed un’altra alla Spes Augusta, divinità ricordata anche a Roma con due edifici templari. Più consueta appare la presenza del culto di Ercole che si attesta in tutto il territorio italico nei pressi delle fonti.

Sempre in questo luogo, a circa 500 metri dal Timavo, nel 1966 è stata scoperta casualmente una grotta, definita del Mitreo. E’ stata riferita al dio Mitra per la presenza di un bassorilievo che raffigura Cautes e Cautopates, i due assistenti del dio che potrebbero rappresentare simbolicamente l’aurora e il tramonto. L’attribuzione a questa divinità, poi cancellata dall’avvento del Cristianesimo, appare pertinente anche a causa della sua collocazione. Era infatti abbastanza consueto che tali luoghi di culto, fossero quasi sempre ottenuti in cavità naturali e nei pressi di una sorgente. Nella grotta si trovavano le panche utilizzate dai fedeli del dio Mitra, sei are votive ed un altare per i sacrifici. Oggi gli originali, sostituiti con dei calchi, sono conservati nel Museo Archeologico di Trieste. La grotta del Mitreo è sicuramente un ritrovamento di grande interesse per la sua antichità e per la sua leggibilità.

Ma la presenza più suggestiva in questo luogo è quella della chiesa di San Giovanni “in Tumbis” o “in Tuba”. Il nome nacque dalla credenza che il giorno del Giudizio Universale i morti sepolti intorno alla chiesa sarebbero stati i primi a resuscitare. E’ chiaro il richiamo al fiume e al suo risorgere dalle viscere della terra, come pure il riferimento a san Giovanni Battista e all’acqua del fiume Giordano.
La chiesa rivela una semplicità romanica a cui si aggiungono particolari strutturali di stile gotico. All’esterno è infatti chiaramente leggibile un’abside scandita da contrafforti a cui si alternano alte ed eleganti finestre ed una volta costolonata in modo radiale.

L’esame archeologico del sito ha scoperto edifici sacri preesistenti che risalgono a tempi molto più lontani. Una prima costruzione dovette essere costituita da un semplice sacello quadrangolare (4×4 m.), posto presso le acque del fiume, dove Giovanni di Damasco, Simone, Furione e Vincenzo, collocarono le reliquie di san Giovanni evangelista, San Giorgio, Santo Stefano e San Lorenzo. Da questo nucleo iniziale nacque nel V sec. una basilica (11×21 m.), dotata di un’abside poligonale, di un mosaico pavimentale policromo a quadrati ed ottagoni e di un monastero poi distrutto dalle invasioni ungare. Nell’ottobre del 1113 vennero riscoperte le reliquie che erano state ben nascoste durante le invasioni degli Avari avvenutetra il 610 e il 611. All’epoca il Patriarca Volderico I fece costruire una nuova chiesa con tre absidi, poi ampliata in tre navate e voltata. Fu questo l’edificio che sopravvisse fino all’ultimo intervento voluto dai Walsee e che oggi possiamo conoscere. Di precedente nell’attuale chiesa possiamo vedere il presbiterio, i rilievi sull’abside e sul portale che conduce alla sacrestia e alcuni reperti conservati nella sacrestia stessa. Tra questi particolarmente interessante è un rilievo, forse una “fenestella confessionis”, che accoglie in una cornice una croce “quasi greca” con quattro elementi floreali stilizzati ed un foro. Importante anche l’epigrafe, purtroppo mutila, del Patriarca Volderico I che doveva far parte del sarcofago contenente le sante reliquie e che rappresenta una sicura fonte documentaria della presenza dell’antico sacello.

Il campanile che dona slancio alla facciata della chiesa fu invece costruito nel 1600. La chiesa e i percorsi d’acqua che si snodano accanto ad essa, ci parlano di una storia millenaria e risvegliano nel visitatore un profondo senso di spiritualità favorito anche  dal silenzio quasi metafisico che solo il rumore dello scorrere dell’acqua ed il fruscio delle fronde e della ricca vegetazione riesce ad interrompere.

Anna Pia Giansanti ,  16 novembre 2009