Il santuario italico di Giove Appennino
Ai piedi del Monte Cucco, lungo l’antica via Flaminia che i Romani costruirono nel 220 a.C., la natura è ancora quella dei fitti boschi, dei fiumi scoscesi, della roccia scavata e lavorata dal tempo, degli animali selvatici che popolano questi luoghi montani, rimasti pressoché intatti nei secoli.
In questo tratto appenninico attraversato dall’importante strada consolare che collegava Roma all’Adriatico, si diramavano vari diverticoli verso est, che ricalcavano antichi tracciati già utilizzati come piste e tratturi dai pastori italici che qui praticavano la transumanza fin dall’età del Bronzo.
Umbri e Piceni qui vivevano di pastorizia e agricoltura su entrambi i versanti appenninici, incontrandosi presso i santuari d’altura per commerciare prodotti e per venerare insieme le divinità.
Giove Appennino, il padre degli dei, era il dedicatario delle vette. Il Marte italico veniva invocato non solo come dio della guerra, ma anche e soprattutto come protettore delle greggi e dei raccolti. Culti per le dee madri, come Cupra e Favonia, sono attestati sia in Umbria che nelle Marche da vari ritrovamenti e toponimi.
Sappiamo inoltre dalle Tavole Eugubine che gli antichi Umbri celebravano sacrifici alla triade Grabovia, formata da Giove Grabovio, Marte Grabovio e Vofione Grabovio. Il termine è d’origine indoeuropea e deriva da graba, che secondo Ancillotti significa roccia. Quella stessa roccia che lungo i versanti del Cucco alterna gole, strapiombi e crinali: roccia bianca e calcarea che caratterizza un paesaggio ancora incontaminato e selvaggio.
Ed è proprio qui, nei pressi dell’attuale comune di Scheggia, che la famosa Tabula Peutingeriana del III secolo (una delle più antiche carte geografiche della storia) segnala una mutatio chiamata ad Ensem. Era questa una stazione di posta, di quelle che frequentemente s’incontravano lungo le strade consolari romane, dove venivano offerti servizi di carrettieri, maniscalchi ed equarii medici (ovvero veterinari specializzati nella cura dei cavalli).
La stazione ad Ensem si trovava presso un importante bivio della Flaminia da cui si distaccava un diverticolo verso il territorio marchigiano. La stazione di posta era particolarmente famosa perchè qui si trovava il santuario di Giove Appennino, luogo di culto frequentatissimo, strettamente collegato alla vicina città umbra di Ikuvium (Gubbio), come conferma anche il disegno dell’edificio riportato nella Tabula Peutingeriana, accanto al quale si legge “Jovis Peninus id est Agubio“.
Un antichissimo tempio sicuramente frequentato dai pastori italici e dai sacerdoti umbri appartenenti alla comunità Atiedia di Ikuvium.
Credo che non solo gli Umbri provenienti dalla citta-stato di Gubbio, ma anche i vari popoli appartenenti alla Lega sacra della comunità Atiedia – tra cui la comunità di Attidium presso l’attuale Fabriano – s’incontrassero su questo sacro monte, presso quello che deve aver rappresentato il loro santuario federale.
Del tempio di Giove Appennino purtroppo non restano tracce, ed è per questo che risulta difficile identificare con certezza il luogo in cui in origine era situato il santuario. Tuttavia esiste una fonte del V secolo che ci fornisce interessanti indizi per provare a localizzare il sito.
Nel descrivere il tragitto da Ravenna a Roma compiuto da papa Onorio nel 404, il poeta Claudiano così scriveva nel suo Panegirico: “exuperans delubra Jovis saxoque minantes, Appenninigenis cultas pastoribus aras”, che tradotto significa: “supera il santuario di Giove e gli altari sovrastati dalla roccia, venerati dai pastori dell’Appennino”.
La prima osservazione che mi viene da fare è questa: se passando lungo la Flaminia nel V secolo d.C. , ancora si vedevano dalla strada gli altari per il culto con i pastori che accendevano fuochi per sacrificare agli dei, ciò significa che nell’alto medioevo il santuario era ancora conservato ed era frequentato da devoti che vi praticavano i propri tradizionali riti, e ciò nonostante i divieti imperiali e nonostante la diffusione del cristianesimo lungo le vie consolari romane!
Nella descrizione di Claudiano ciò che mi colpisce è inoltre il termine usato dal poeta per indicare il tempio di Giove Appennino: egli parla infatti di delubra al plurale, e non di delubrum al singolare. Sappiamo che i Romani chiamavano delubrum un santuario di antichissima origine (termine che deriva da deluĕre , ovvero lavare, detergere), con evidente allusione alla funzione purificatoria dell’acqua presso questi luoghi naturali e boschivi, sacri agli dei. E su questo monte, che si erge al confine tra Umbria e Marche, le acque sorgive da sempre ritenute salutari e terapeutiche scorrono oggi come ieri in grande abbondanza, rendendo fertili boschi e pascoli e dissetando uomini ed animali.
Il fatto che il termine usato da Claudiano sia al plurale mi fa pensare non tanto ad un unico edificio templare, ma piuttosto a più siti sacri, forse identificabili con quegli stessi altari sovrastati dalla roccia descritti dal poeta, ovvero con quelle are su cui venivano poste le offerte agli dei secondo rigidi rituali religiosi. Rituali che peraltro ben conosciamo attraverso le dettagliate e ripetitive descrizioni delle Tavole Eugubine.
Nel XVIII secolo, tra Scheggia e Pontericciòli di Cantiano, in una località chiamata Piaggia dei Bagni (altro toponimo significativo che denota la sacra presenza di acque salutari) fu rinvenuto del materiale archeologico tra cui un’iscrizione del I sec. a.C. con dedica a Giove Appennino, bronzetti votivi, monete, rocchi di colonna, frammenti di statue, marmi, altre iscrizioni e persino la scultura di un’aquila bronzea (simbolo di Giove).
Scavi successivi riportarono alla luce vasche di epoca romana, verosimilmente utilizzate per raccogliere le acque sorgive del Cucco, e collegate ai culti praticati nel santuario di Giove Appennino. Purtroppo il materiale rinvenuto non fu conservato e andó disperso, fatta eccezione per l’iscrizione con dedica a Giove che oggi si trova a Verona.
Non solo Claudiano e la Tabula Peutingeriana, ma anche altre fonti ci parlano del santuario di Giove Appennino sul Monte Cucco.
Si trattava di un santuario con funzione oracolare, come conferma anche un passo della Historia Augusta, in cui Flavio Vopisco riferisce che l’imperatore Aureliano voleva collocare nel tempio del Sole una statua aurea di Giove Console (o Consulente) seguendo il responso che gli era stato dato dall’oracolo degli Appennini: “Appenninis sortibus additis”. Anche l’autore Trebellio Pollione riferisce di un imperatore, Claudio il Gotico, che avrebbe consultato per ben tre volte l’oracolo “in Appennino”.
Il culto per il dio delle vette era certamente diffuso lungo tutto il crinale appenninico e infatti lo ritroviamo anche in aree montane limitrofe, come ad esempio sulla cima del vicino monte Pennino, presso Nocera Umbra, il cui toponimo tradisce la dedica al padre degli dei. Qui furono rinvenuti vari reperti, presi in esame dallo studioso locale Staderini, che documentano antichi luoghi di culto e un’ara sacra, usata dal VI a.C fino all’ epoca romana.
Del sacro monte Pennino, di Nocera Umbra e delle sorgenti del fiume Topino, parlerò più approfonditamente in un prossimo articolo. Per ora voglio solo anticipare che il nome più antico del Topino era Tinia, che certo non a caso coincide con il nome etrusco di Giove!
di Antonella Bazzoli – 7/9/2018