Il corteo del Cristo morto nella Gubbio medievale
Le Sacre Rappresentazioni del Cristo Morto sono tradizioni folkloriche e religiose di origine medievale che si tengono ancora oggi in diverse città d’Italia durante la festa cristiana del Venerdì Santo.
Si tratta solitamente di cortei funebri, animati da figuranti in costume che recano i simboli della Passione di Cristo e che interpretano ruoli teatrali, un tempo riservati a chierici e membri di confraternite religiose.
Le Sacre Rappresentazioni si svolgevano a volte con l’ausilio di statue in legno, o in terracotta, che rappresentavano Maria, Giovanni, Maddalena, San Giovanni d’Arimatea, Nicodemo. Tutte queste figure attorniavano il Cristo crocifisso, il cui simulacro spesso aveva gli arti superiori semi movibili, così da poter essere più facilmente deposto dalla croce e trasportato al sepolcro durante la rappresentazione teatrale.
Gli episodi della Passione di Gesù venivano così messi in scena tramite cortei e drammatizzazioni sacre, il cui aspetto devozionale si esprimeva anche attraverso l’uso di canti e di laude.
Recandosi nel tardo pomeriggio del Venerdì Santo a Gubbio, un borgo medievale considerato tra i più suggestivi e meglio conservati d’Italia, è possibile rivivere l’atmosfera originale del corteo funebre del Cristo morto.
La processione solitamente parte all’imbrunire, intorno alle 19, prendendo il via dall’antica chiesa di Santa Croce della Foce. Il corteo fa quindi una prima sosta in prossimità del Palazzo del Capitano del Popolo, dove in corrispondenza di un’antichissima pietra a forma circolare (ancora visibile sul piano di calpestio) viene deposta la statua del Cristo Morto. Gli Eugubini chiamano questo grande tondo quadripartito: “il pietrone” , e una tradizione orale lo vorrebbe addirittura far risalire all’età degli Umbri.
Non vi sono documenti o scavi che lo attestino, ma è comunque suggestivo immaginare che in corrispondenza di questa antica pietra possano essersi svolti i rituali religiosi precristiani di espiazione e lustrazione, anticamente celebrati davanti alle tre porte della città umbra Ikuvium. Prima che questo centro fosse conquistato dai Romani, qui si trovava infatti un’ importante città-stato di origine italica, dove è attestata la presenza di una confraternita di Fratres Atiedii, collegio sacerdotale di età precristiana il cui compito era regolamentare e celebrare i riti religiosi in onore degli dei.
Conosciamo i loro rituali e il loro pantheon grazie alla traduzione delle Tavole Eugubine: sette tavole in bronzo incise su entrambi i lati in lingua umbra (ma con lettere dell’ alfabeto etrusco), conservate a Gubbio all’interno del Palazzo dei Consoli. Un’altro valido motivo per visitare questa città umbra, famosa nel mondo anche per la Corsa dei Ceri del 15 maggio e per il Festival del Medioevo di fine settembre.
Ma torniamo a descrivere la processione storica del Venerdì Santo, che si snoda lentamente lungo le vie del centro, muovendosi tra antiche mura, tra caratteristiche “porte del morto”, tra archi e rosoni rimasti intatti nei secoli. Uno spettacolo reso ancor più impressionante dalla presenza del Palazzo dei Consoli, la cui elegante e maestosa mole trecentesca svetta tra gli edifici medievali, perfettamente conservati con la loro pietra calcarea locale.
Durante il passaggio della processione, oggi come ieri, si usa accendere grandi falò per illuminare il percorso. La luce dei fuochi illumina piazza San Pietro, via Dante e il Largo San Marziale, unendosi alla luce delle fiaccole che rendono ancor più suggestivo e realistico il carattere medievale del sacro corteo.
Assistere a Gubbio alla rappresentazione del Cristo Morto ti fa davvero tornare indietro nel tempo: i figuranti incappucciati sfilano lentamente, incedendo con passo pesante, scandendo un ritmo lugubre e solenne, ed è impossibile non lasciarsi trasportare dall’atmosfera mistica dei canti e dei suoni dai toni bassi, profondi e toccanti.
Alla testa del corteo eugubino sfilano i suonatori di battistrangole, antichi strumenti in legno, dal suono sordo e tetro, percossi dai musici alternativamente su entrambi i lati con l’utilizzo di maniglie in ferro. Subito dietro di loro sfila il primo incappucciato che reca il teschio, simbolo del cranio di Adamo e del Golgota dove fu crocifisso il Cristo che avrebbe salvato e redento l’umanità. Seguono i crociferi (letteralmente “portatori di croce”), guidati da un personaggio che trasporta un simbolico albero della vita. Sfilano poi gli altri confratelli, ciascuno con un simbolo della passione in mano: chi reca il gallo, chi il calice, chi i denari di Giuda, chi la corda; seguono la colonna, i flagelli, la corona di spine, il bacile di Pilato, la scritta INRI, il velo della Veronica, il sudario, i chiodi, il martello, la spugna, la lancia, le vesti di Gesù, i dadi, la scala e le tenaglie.
La tradizione del corteo funebre sembra risalire al periodo del basso medioevo, quando nacquero quei primi movimenti laici di penitenti che avrebbero poi dato origine alle varie confraternite spontanee (riconosciute in seguito anche dalla Santa Sede). Sappiamo che Gubbio aveva tre confraternite principali: quella del Crocefisso, quella di San Bernardino (anche nota come Fraternita del Ponte Marmoreo) e quella di Santa Maria della Misericordia (detta anche Fraternita dei Bianchi). I loro membri, chiamati in seguito sacconi, per via del grande saio che usavano indossare, derivano evidentemente dai Disciplinati, noti anche come Flagellanti, come venivano chiamati quei penitenti laici che usavano sfilare in lunghissime processioni, divenute poi famose in tutta l’Europa cristiana. L’origine del nuovo movimento religioso dei Flagellanti risale al 1260 quando il perugino Raniero Fasani inaugurò la consuetudine della penitenza itinerante, dando vita a un corteo di penitenti che nel maggio di quell’anno partì dalla chiesa templare di San Bevignate in direzione di Gubbio. Man mano che la gigantesca processione proseguiva verso il nord d’Italia, essa raccoglieva via via sempre più persone, tra cui anche donne e bambini. Mentre sfilavano, i Flagellanti usavano colpirsi a sangue con il flagellum, strumento da cui appunto deriva il loro nome. Lo facevano perché credevano fermamente nella visione profetica ed escatologica dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore, il quale aveva previsto la fine del mondo proprio nel 1260. Per espiare i peccati dell’ umanità, i Flagellanti attraversarono così molte città d’Italia e d’Europa, testimoniando pubblicamente la propria penitenza, e intonando canti lugubri che annunciavano l’apocalisse, in attesa della fine del mondo ritenuta ormai imminente secondo la profezia.
I suoni profondi e grevi di quelle antiche laude medievali ancora oggi riecheggiano nelle melodie scandite dai figuranti incappucciati che il Venerdì Santo sfilano nella città di Gubbio.
Forse il più suggestivo tra tutti è il canto del Miserere, tramandato oralmente nel corso dei secoli ed eseguito in latino da due gruppi di cantori vestiti in saio bianco e cappa nera.
Tra l’ alternarsi di suoni lugubri e cupe melodie, il ritmo del Miserere arriva infatti direttamente al cuore di chi ascolta, confondendosi con il suo battito.
di Antonella Bazzoli – 3 Aprile 2015