La Verità e la Menzogna

Domenica scorsa, visitando San Gimignano, sono rimasta incuriosita dall’iconografia di un’opera pittorica, affrescata sotto la Loggia della Giustizia, nel cortile interno del Palazzo medievale del Podestà e del Popolo. Si tratta di un interessante affresco monocromo, datato all’inizio del XVI secolo, che alcuni hanno interpretato come un monito rivolto ai magistrati e ai giudici che risiedevano nell’edificio pubblico.
Nella parte superiore dell’affresco si legge chiaramente: PER QUEL CHE PECHA L’H(U)O(M) PER QUEL PATISCE / CAVA TU, VERITA’, ALLA BUGIA / LA FALSA LINGUA QUAL SEMPRE MENTISCE. L’iscrizione è posta in alto a sinistra, al di sopra dell’allegoria della Verità, rappresentata da una figura femminile nuda che reca un cartiglio arrotolato nella mano destra. Il capo è cinto da una ghirlanda di foglie d’ulivo ed è sormontato da una bianca colomba. Un drappo le cade dalle braccia coprendole il basso ventre, e nella mano sinistra sostiene un lungo ramo d’ulivo, pieno di foglie e frutti maturi.
Al centro della scena si riconosce la figura di un magistrato, un giudice probabilmente, seduto sul suo seggio mentre indica con la mano destra la figura allegorica che occupa la parte opposta dell’affresco: un personaggio vestito e con il capo coperto che nella mano sinistra tiene una piccola asta con un serpente attorcigliato intorno.  
Per lungo tempo l’affresco è stato interpretato come le personificazioni della Prudenza e della Verità che affiancano il giudice nell’atto delle sue funzioni. La presenza del rettile richiama infatti una tradizionale iconografia della virtù cardinale Prudenza, come si vede anche in una tarsia marmorea del pavimento del Duomo di Siena (realizzata tra fine Trecento e inizio Quattrocento) dove l’allegoria tiene un serpente in mano. Sembra evidente il richiamo teologico al famoso passo del Vangelo di Matteo in cui Gesù così si rivolgeva agli apostoli: – Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi, siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe (10-16). Tuttavia l’allegoria della Prudenza viene spesso rappresentata anche con uno specchio in mano , attributo assente nell’affresco di San Gimignano. Inoltre nel dipinto in esame va notato un altro elemento simbolico, collocato sul capo della figura vestita, che a mio avviso non può in alcun modo far pensare all’allegoria della Prudenza: mi riferisco al corvo nero, rappresentato in modo speculare e antitetico rispetto alla colomba bianca che sta sul capo della Verità.
Eppure, nonostante la presenza del corvo, i diversi storici dell’arte che negli ultimi due secoli hanno studiato l’affresco di San Gimignano hanno continuato ad interpretare questa figura come allegoria della Prudenza.
Almeno fino al 1993, quando la studiosa Maria Monica Donato ha pubblicato un interessante contributo, dal titolo “Cose morali, e anche appartenenti secondo è luoghi”: per lo studio della pittura politica nel tardo medioevo toscano, proponendo una nuova lettura iconografica dell’affresco di San Gimignano.
Partendo dall’analisi di una tradizione iconografica ed epigrafica, attestata in vari comuni toscani ed umbri, tra cui Siena, Firenze e Perugia, l’autrice sostiene che tali “manifesti” politici servivano a diffondere valori e virtù in cui la città si identificava civicamente. In altre parole la Donato riconosce la presenza di un lessico iconografico ed epigrafico comune alle città medievali, una sorta di linguaggio politico e morale veicolato per immagini, che deriva da decorazioni plastiche e pittoriche di età romanica e gotica, già presenti in palazzi, chiese e altri monumenti civici del Duecento, come ad esempio nelle diffusissime rappresentazioni dei “cicli dei mesi”, di santi vescovi, di favole di Esopo, di personificazioni di città, di vizi e virtù morali, di arti liberali, le cui immagini allegoriche e le cui iscrizioni dovevano servire a trasmettere messaggi politici, teologici e morali.
In tale contesto mediatico rientra anche l’immagine della Verità che strappa la lingua alla Bugia, già usata fin dall’età romanica, come dimostra il messaggio morale inciso su un rilievo del duomo di Modena in cui si legge: “Veridi(cus) linguam fraudis de guttura stirpat” . La stessa sentenza moraleggiante continuò ad essere utilizzata da artisti e letterati del Rinascimento, come si legge ad esempio nel trattato di architettura di Antonio Filarete, che tra il 1460 e il 1464 progettò una città ideale per il duca di Milano Francesco Sforza, al quale dedicò un prontuario di “cose morali, e anche appartenenti secondo è luoghi”, ovvero suggerimenti su come decorare i palazzi pubblici, attraverso immagini eloquenti sia eticamente che politicamente. Nel Liber Decimus del suddetto Trattato, lo scultore e architetto Filarete suggerisce al suo Signore una decorazione pittorica pressoché identico a quelao che vediamo rappresentata nel cortile del Palazzo pubblico di San Gimignano alcuni decenni dopo.
Ecco il dialogo tra Filarete e il duca di Milano, a proposito della Verità e delle punizioni che i giudici devono infliggere ai bugiardi : ‘Quello che a me pare stia bene qui si è questo: che in questa prima entrata sia dipinta la Verità e la Bugia, perché questo è luogo dove ha a essere gastigata la bugia e ‘ malfattori. Seg la domanda di Francesco Sforza: -Dimmi com’è la Verità. Quindi la descrizione fornita da Filarete che richiama iconograficamente quella realizzata nel cortile di San Gimignano. L’architetto infatti risponde:  – Io l’ho veduta dipinta: una donna inuda, bella, amantata con uno candido velo; e in mano tiene una borsa piena di danari voltata di sotto in su e da l’altra mano tiene uno ramo d’olivo e i piedi tiene alti sopra terra in su uno marmo bianco, e in capo tiene una colomba. E la Bugia è una femmina vestita di nero con i stivaletti in piè con molte legature, e in mano tiene una borsa piena di danari e tiella stretta, e da l’altra mano tiene una verghetta avoltolatovi su una serpe, e in capo ha uno corbo, li piè tiene bassi nell’acqua… E poi ho veduto che la Verità cava la lingua alla Bugia con uno paio di tanaglie di fuoco; e così la colomba che porta in capo la Verità cava la lingua al corvo.
Alla luce di questo testo quattrocentesco, l’identificazione della figuracon il serpente in mano e il corvo sulla testa non può che essere l’allegoria della Bugia. Il Magistrato al centro della scena indica con l’indice la figura allegorica che rappresenta la menzogna, come farebbe colui che sa riconoscere chi mente e chi dice il vero.
Parlando del pittore Taddeo Gaddi, anche Giorgio Vasari nelle sue “Vite” ci fa sapere che questo soggetto iconografico veniva spesso affrescato nei Palazzi del Popolo e nei Tribunali: – Ritornò a Fiorenza e dipinse il tribunale della Mercatanzia Vecchia, nella quale istoria con poetica invenzione figurò il tribunale de’ sei uomini, magistrato di detta città, i quali stanno a vedere cavare la lingua alla Bugia dalla Verità, la quale è vestita di velo su lo ignudo, e la Bugia ammantata di nero, scritto sotto a queste figure i versi che seguono: La pura Verità per ubbidire/ alla santa Giustizia che non tarda/ cava la lingua a la falsa Bugiarda

Nell’affresco di San Gimignano vi era in origine anche una quarta figura femminile, rappresentata in basso e purtroppo andata parzialmente perduta, ma che s’intuisce fosse semi distesa al di sotto del seggio su cui il giudice siede. Di questa figura mutila si conservano soltanto il volto, il collo e la spalla destra. Il capo è incorniciato da lunghe ciocche di capelli ondulati, mossi dal vento e cinti da una ghirlanda di verdi foglie, simili a quelle che cingono il capo della Verità.
La figura è stata interpretata da alcuni studiosi come allegoria della Menzogna, posta in basso, sotto il seggio, perchè calpestata e vinta dal Giudice (v. l’Inventario generale degli oggetti d’arte della Provincia di Siena redatto dal Brogi tra 1862 e 1865).  
Tale interpretazione tuttavia non mi convince. Osservando infatti quel che resta dell’enigmatica figura dipinta ai piedi del Giudice, mi sono tornate in mente altre immagini pittoriche che fotografai anni fa durante i miei viaggi tra Umbria e Toscana.
Il confronto più significativo che qui vi propongo è quello con l’ affresco trecentesco che si trovapresso la Rotonda di San Galgano, la chiesa tonda di Chiusdino che si erge sulla collina di Montesiepi. In questo antico luogo di culto, che si lega alla leggenda  del cavaliere Galgano e della spada conficcata nella roccia, sorse nel XIV secolo una struttura che fu addossata alla Rotonda, al cui interno si conserva un interessante ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti (1345 ca.). In alto, nella lunetta della parete di fondo, si vede una Madonna in trono, circondata da angeli, santi e figure allegoriche. Ai piedi di Maria è rappresentata l’immagine di Eva, semidistesa, con i lunghi capelli legati in trecce e vestita di bianco, con una pelle di capra che le copre le braccia e le spalle. La prima donna tiene con la mano sinistra un ramo di fico con foglie e un frutto che lo identifica come tale. Ho già avuto modo di dimostrare che il fico, e non la mela, era considerato nel medioevo il simbolo del peccato originale (v. a questo proposito: https://evus.it/it/index.php/rivelazioni/apocalypsis/il-fico-ovvero-lalbero-della-conoscenza-del-bene-e-del-male/).
Con l’altra mano Eva regge un cartiglio in cui si legge questa frase significativa: “Fei pecchato : perque passione soferse : XRO (Christo) che questa: re(g)ina sorte: nel ventre: p(er) nostra redentione“.
Eva parla in prima persona, ammettendo il proprio peccato e dicendo parole di Verità. L’iscrizione spiega che il peccato causò la sofferenza e la passione di Cristo, ma anche la redenzione degli uomini attraverso il suo sacrificio. Il messaggio è dunque che per mezzo di Maria e di suo figlio, alla caduta e alla colpa del genere umano è poi seguita la grazia e il perdono.
Anche a Montefalco, nella chiesa di Sant’Agostino, si può ammirare una rappresentazione di Eva raffigurata semi sdraiata a terra, nella parte inferiore di un grande affresco di Ambrogio Lorenzetti (l’Incoronazione della Vergine). La prima donna è anche qui vestita di bianco ed è sdraiata ai piedi di un basamento sopra il quale siedono Cristo e Maria. Stessa postura, stessa iconografia, stessi attributi proprio come nell’immagine di Montesiepi. Entrambe le figure reggono nella mano sinistra lo stesso simbolico ramo con foglie di fico. Persino la postura delle gambe è identica nei due affreschi.
Alla luce dei confronti iconografici che ho appena presentato, concludo dicendo che l’immagine femmminile affrescata ai piedi del seggio, sotto la Loggia di San Gimignano, è a mio avviso una rappresentazione di Eva, la peccatrice redenta grazie a Maria. Non si tratterebbe dunque di un’allegoria della Menzogna, alla quale la Verità ha cavato la lingua, come sostengono alcuni, ma dell’immagine di Eva redenta
La somiglianza iconografica tra le due figure di Eva a Montefalco e a Montesiepi, e quel poco che resta dell’immagine andata perduta a San Gimignano, mi fa pensare che attraverso la Verità, ovvero tramite la confessione pubblica e il pentimento è possibile l’ espiazione del peccato e può avvenire la redenzione. In altre parole, solo dicendo il Vero e impedendo al Falso di mentire, si possono superare l’onta e la colpa, ottenendo la grazia, non solo di Dio, ma anche del giudice in terra.
Rileggerndo l’iscrizione di San Gimignano: PER QUEL CHE PECHA L’H(U)O(M) PER QUEL PATISCE / CAVA TU, VERITA’, ALLA BUGIA / LA FALSA LINGUA QUAL SEMPRE MENTISCE, vorrei infine far notare il concetto teologico e morale che tale frase contempla, ovvero che il peccato commesso dall’uomo e la sofferenza che ne consegue, possono essere superati solo con la Verità.

Testo e foto di Antonella Bazzoli, 31 gennaio 2023