Ecate, la fonte dell’anima cosmica
Sappiamo da Esiodo che il potere della dea Ecate si estendeva sulla terra, nelle acque del mare e nel cielo stellato (Teogonia, 411, 452).
L’ aspetto triforme dell’antica divinità, venerata in Grecia e in Asia Minore, è spiegato da Ovidio con queste parole: “Vedi i volti di Ecate orientati in tre direzioni, affinché possa sorvegliare gli incroci a tre vie” (Fasti, I , 141-142). Una delle funzioni di Ecate era così proteggere le vie di accesso e gli incroci stradali in città, ragione per cui il suo simulacro si trovava spesso in corrispondenza di porte e di trivi.
Plutarco identifica la dea con la luna, conferendole un triplice aspetto e associandola ai complessi moti lunari: se Ecate in cielo prende l’aspetto di Selene, come luna piena che vive di luce riflessa, sulla terra ella assume l’aspetto di Artemide, in quanto dea associata all’ ultima falce lunare, mentre negli inferi la sua natura trina prende le sembianze di Persefone, immagine della luna nuova.
In un antico oracolo caldaico Ecate viene chiamata “fonte d’acqua dell’anima cosmica” , con un’accezione sacra, mistica e positiva.
Successivamente le fu attribuito anche un potere vitale sugli elementi, incluso quello di rianimare i morti. E in virtù di questo suo stretto legame con il mondo sotterraneo, Ecate finì per essere associata alla magia e alla stregoneria, come dimostra anche il termine “ecatombe” che deriva appunto dal nome della dea.
La sua figura cominciò così ad essere non solo invocata, ma anche temuta, in una duplice accezione di venerazione e demonizzazione che rispecchia la complessità, e per certi versi la contraddittorietà, del concetto di donna nel medioevo.
L’iconografia della triplice dea sopravvisse tuttavia attraverso i secoli, come possiamo verificare osservando la famosa scultura in bronzo delle “tre portatrici d’acqua” che si trova a Perugia. Mi riferisco all’opera tardo-medievale che si erge sulla Fontana Maggiore , realizzata nel 1278 da Giovanni e Nicola Pisano, sotto la direzione dei lavori di Fra Bevignate, e su committenza del potente comune guelfo.
All’apice del monumento vediamo tre figure femminili dalle fattezze classiche che sorreggono con le proprie braccia una grande anfora in cui si riversa l’acqua corrente, per poi confluire nelle vasche sottostanti: il bacino superiore è in bronzo mentre le due vasche le due inferiori sono in pietra e insieme formano una struttura architettonica concentrica, tripartita verticalmente e di tipo piramidale.
La triade femminile all’apice sembra quasi ruotare su se stessa, dando l’illusione di un’armonica danza circolare. Le sei braccia sono infatti poste ad angolo, con le tre mani destre appoggiate sul fianco, e le tre sinistre piegate in alto, a sostenere il vaso centrale in una posa simmetrica e multiforme che ricorda l’immagine di una dea Kali orientale.
Le tre figure di donna, addossate schiena a schiena, e bagnate dall’acqua che si riversa nell’anfora bronzea fuoriuscendo dall’apice della struttura, esprimono da un lato un collegamento simbolico tra il femminino sacro e l’elemento acquatico, e dall’altro lato un percorso allegorico tra la terra e il cielo, tra il mondo terreno e le sfere celesti.
C’è chi ha ipotizzato che la scultura possa rappresentare un’allegoria della trinità cristiana, ma personalmente non sono d’accordo. Confrontando infatti questo soggetto iconografico con altre rappresentazioni trinitarie del tardo-medioevo, come quelle affrescate nelle chiese perugine di San Pietro e di Sant’Agata (v. foto), appare evidente che nel corso del Trecento la Trinità veniva ancora rappresentata da una figura a tre teste o a tre fronti (il Cristo trifronte), indubbiamente di genere maschile e non femminile.
L’opera bronzea della Fontana Maggiore (il cui originale è oggi nella Galleria Nazionale dell’Umbria) è invece un’allegoria tutta al femminile che non può essere spiegata in chiave trinitaria. Se proprio si vuole dare un’interpretazione teologica alla presenza sulla Fontana delle tre figure, addossate l’una all’altra, suggerirei semmai il confronto tra la scultura bronzea dei Pisani e la personificazione delle virtù teologali (Fede, Speranza e Carità), spesso affrescate o scolpite con fattezze femminili nei secoli del medioevo.
Un significativo confronto in tal senso può essere quello tra l’opera in bronzo di Perugia e una scultura che si trova nella chiesa di San Giovanni Fuorcivitas a Pistoia, pure realizzata dai Pisani nel 1273.
Si tratta di un’ acquasantiera a base esagonale, formata da tre figure ricavate da un unico blocco di marmo, che il Vasari attribuisce a Giovanni Pisano, anche se la critica più recente tende ad attribuirle al padre Nicola.
Nell’opera di Pistoia le tre personificazioni rappresentano le virtù teologali che recano in mano i rispettivi attributi: un ramo di palma per la Fede, uno stelo di giglio per la Speranza e un vaso fiammeggiante per la Carità, ovvero l’ Amore divino.
Le tre figure femminili sono sormontate da un bacile sagomato su cui sporgono quattro mezze figure, anche femminili, che rappresentano le quattro virtù cardinali: la Prudenza, la Giustizia, la Fortezza e la Temperanza.
Ancor più interessante è il confronto tra la scultura sulla Fontana maggiore e alcune rappresentazioni classiche della dea Ecate. Un confronto in tal senso fu proposto per la prima volta dalla studiosa tedesca Khatrine Hoffmann-Curtius nel lontano 1968.
La sua ipotesi è a mio avviso molto convincente ed è confermata anche dall’analisi iconografica di alcuni reperti raffiguranti Ecate, che fortunatamente si sono conservati fino a noi.
il primo confronto lo trovai alcuni anni fa in una statuetta d’alabastro che raffigura la triplice dea Ecate e che si trova nel museo civico di Chiusi. Non appena vidi questa piccola statua di età classica di Ecate, capii che si trattava dello stesso soggetto iconografico delle “tre portatrici d’acqua”, realizzate dai Pisani per la fontana di Perugia.
Un’uteriore conferma della validità del confronto la ebbi in occasione di una mostra a Rimini, dove era esposto un bronzetto votivo di Ecate proveniente dal museo di S. Caterina a Treviso.
Concludendo, si può ipotizzare che le entrambe sculture, realizzate dai Pisani a Perugia e a Pistoia negli anni Settanta del XIII secolo, abbiano avuto come modello di riferimento lo stesso soggetto iconografico della dea Ecate triforme, evidentemente ereditato dall’arte classica.
Un modello figurativo già appartenuto alla cultura greca e a quella romana, che in seguito potrebbe essere stato assorbito dal nuovo credo cristiano, per essere riadattato attraverso quel tipico processo sincretico che si rivelò funzionale alla diffusione e all’attecchimento della nuova fede.
Difficile è tuttavia stabilire se i committenti e gli artefici della fontana di piazza di Perugia, che rappresentarono le “tre portatrici d’acqua” con eleganti ed armoniche fattezze classiche, siano stati consapevoli del complesso simbolismo della triplice dea, la cui immagine una e trina fu talmente sacra da essere associata ad una “fonte d’acqua dell’anima cosmica“.
Antonella Bazzoli – 1 giugno 2009, aggiornato il 20 luglio 2021
Per approfondimenti :
“Chi dice acqua, dice donna” articolo di A. Bazzoli, pubblicato su Medioevo, Anno XIII n.6 – giugno 2009, pagg. 88 – 95
Das Programm der Fontana Maggiore in Perugia di K. Hoffmann-Curtius, Rheinland-Verlag, Duesseldorf, 1968