L’abbazia di Sant’Eutizio e l’arte medievale della chirurgia
Siamo in Val Castoriana, nel borgo medievale di Preci, il cui nome in origine era Castrum Precum, il “castello delle preghiere”. Qui, tra le impervie montagne dell’Appennino centrale che fanno da corona ad un paesaggio rurale di estrema bellezza, sta incastonata nella roccia l’ abbazia benedettina di Sant’Eutizio. La chiesa romanica, seriamente danneggiata dal terremoto del 26 ottobre 2016, è fortunatamente ancora in piedi, mentre purtroppo è crollata definitivamente la vicina chiesa medievale di Campi intitolata al San Salvatore (v. foto). L’antico edificio conteneva interessantissimi affreschi al suo interno, e pare che la struttura, già compromessa dal precedente terremoto che distrusse la città di Amatrice, non abbia resistito alla seconda scossa forse anche perchè non sarebbe stata adeguatamente messa in sicurezza.
Con l’intenzione di contribuire alla rinascita, alla conservazione e alla valorizzazione di un territorio in cui storia, natura, tradizione ed architettura si integrano perfettamente, oggi vi voglio raccontare la storia dell’abbazia di Sant’Eutizio e dei vicini castelli che sorsero nei secoli del medioevo in questi luoghi montani da sempre considerati fertili e sacri.
La vicenda della fondazione dell’ abbazia di Sant’Eutizio si perde nell’alto medioevo, quando in seguito alla caduta dell’impero romano d’occidente, in questo luogo impervio ed isolato della Val Castoriana si insediarono i primi monaci ed asceti provenienti dalla Siria.
Dai “Dialoghi” di Gregorio Magno sappiamo che un eremita, di nome Spes, avrebbe fondato qui una serie di cenobi in muratura e romitori ricavati da grotte naturali, dando vita così ai primi nuclei di anacoreti di provenienza orientale che si rigugiarono tra queste montagne coniugando la vita solitaria e quella di comunità. (Dialogi, IV, XI, 1-3) . Afflitto da quaranta anni di cecità totale, il monaco Spes avrebbe miracolosamente riacquistato la vista poco prima di morire, potendo così far visita un’ultima volta al suo insediamento cenobitico sorto in località Cample (“n loco cui vocabulo Cample est), in un’area montana che dista circa sei miglia da Norcia.
Successore di Spes fu l’abate Eutizio, venerato come un santo dagli abitanti di Norcia, come riferisce anche Gregorio Magno. Tra i miracoli post mortem del santo abate vi fu quello operato dalla sua sacra tunica che, venerata come reliquia, veniva portata in processione tra i campi riarsi nei periodi di siccità, facendo miracolosamente tornare la pioggia (Dialogi, III, XV, 2. 18-19).
Gregorio riferisce poi del compagno e discepolo di Eutizio, di nome Fiorenzo, il quale avrebbe operato prodigi in vita, tra cui quello di creare un’insolita amicizia con un orso feroce che sarebbe diventato mansueto aiutandolo a custodire il gregge di pecore e attendendolo nella cella come un confratello per i digiuni e per le orazioni. Narra Gregorio che l’orso fu in seguito ucciso da alcuni monaci invidiosi e che il dolore di Fiorenzo fu tale da fargli invocare la vendetta divina sui responsabili dell’uccisione. La maledizione si sarebbe avverata e i monaci si sarebbero tutti ammalati di lebbra fino a morirne, e ciò avrebbe provocato un profondo senso di colpa nell’animo del mite monaco Fiorenzo che per il resto della propria vita non cessò mai di piangere i propri confratelli…
Curiose ed interessanti leggende agiografiche, sulle quali ci sarebbe molto da aggiungere. Ma tornando alla storia dell’abbazia notiamo un vuoto di documenti nel periodo delle invasioni lomgobarde. La mancanza di documenti anteriori al XII secolo non ci permettono di ricostruire con certezza le vicende successive dell’insediamento eutiziano, e tuttavia possiamo immaginare che molti monaci abbiano continuato a frequentare il cenobio, seguendo la regola benedettina dell’ “ora et labora” e occupandosi dell’assistenza ai malati. Come previsto dalla regola di san Benedetto, infatti, tra i doveri principali di un monaco vi era anche quello di prendersi cura degli infermi: “infirmorum cura ante omnia et super omnia adhibenda est” .
La dedizione dei monaci verso i più bisognosi, e in particolare verso i lebbrosi, è testimoniata dalla costruzione del vicino lebbrosario di San Lazzaro al Valloncello, che fu edificato a valle rispetto l’abbazia, lungo il fiume Nera.
Nel corso del basso medioevo, la Badia continuò ad ingrandirsi dotandosi di nuovi ambienti, tra cui un oratorio, un alloggio per ospitare poveri e pellegrini, una farmacia, una scuola di paleografia e miniatura e persino di uno scriptorium che sappiamo aver ospitato copisti amanuensi dotati di grandi abilità grafiche.
I monaci di Sant’Eutizio divennero sempre più un riferimento non solo religioso, ma anche economico e sociale, per i vicini abitanti di Preci e di Norcia, e per quelli di Spoleto, Foligno e di Roma. Il patrimonio fondiario della Badia aumentò fino a raggiungere le rive dell’ Adriatico e arrivò a comprendere territori prossimi alle lontane città di Ascoli e di Teramo. Oltre a disporre di una salina sul mare Adriatico, l’abbazia possedeva anche un porto sulla foce del fiume Tronto, utilizzato per commerciare prodotti lungo le rotte del Mediterraneo. Come gran parte delle abbazie medievali, anche quella di Sant’Eutizio divenne così un potente centro economico autarchico e autosufficiente, specializzato non solo in attività agricole, ma anche zootecniche e artigianali.
La storia della Badia, così come la storia del vicino castello di Preci, si lega tuttavia ad un’arte in particolare, quella della chirurgia, che in queste terre d’altura mise le sue radici in tempi remoti e che proprio qui si sviluppò nel corso del medioevo, fino a diffondere la propria fama in tutta Europa.
Da Preci provengono infatti i primi chirurghi, chiamati “cerusici”, divenuti famosi e ricercatissimi per le loro abilità in interventi di litotomia, erniotomia cateratte, salassi e castrazioni.
Nei castelli di Preci e di Norcia questi abili chirurghi si tramandavano il mestiere di padre in figlio, passandosi anche lo strumentario di famiglia, formato da ferri chirurgici che corrispondevano a quelli del tradizionale armamentario ippocratico-galenico. Tra gli strumenti più usati dai cerusici preciani ricordiamo il cosiddetto ferro per infrangere la pietra, chiamato anche tentacolo litotritore, o frangitore, usato per estrarre i calcoli. Nell’armamentario vi era poi un altro ferro, simile a un forcipe, chiamato alfonsino, che serviva a dilatare le ferite durante l’intervento e a raccogliere i frammenti del calcolo, dopo averlo estratto.
Per l’operazione di cateratta, invece, venivano utilizzati l’ onerino (strumento che serviva a divaricare le palpebre durante l’operazione), l’ondina (usata per applicare colliri) e l’aco (ferro chirurgico con cui si effettuava la rotazione e la deposizione della cateratta).
Alcuni di questi antichi strumenti chirurgici sono ancora oggi vesibili nel museo civico di Preci e in alcune teche dell’abbazia di Sant’Eutizio.
I chirurghi empirici di Preci e di Norcia continuarono ad esercitare la cosiddetta mezza chirurgia tra il XIII e il XVIII secolo. Sappiamo ache che per svolgere l’ attività di chirurgo (ovvero l’arte della litotomia, erniotomia, nonché l’intervento di cateratta e i salassi) questi medici dovevano essere in possesso di patenti ufficiali e di appositi diplomi riconosciuti dalle autorità.
La fama dei chirurghi preciani divenne tale che questi cominciarono ad essere ingaggiati come medici di corte dai più potenti regnanti d’Europa.
Il chirurgo Cesare Scacchi, fratello minore del famoso medico di corte Durante Scacchi, operò ad esempio con successo la regina d’Inghilterra Elisabetta Tudor che soffriva di cateratte ad entrambi gli occhi. La sovrana, che aveva temuto di rimanere cieca, lo ringraziò con mille scudi per averla salvata!
Anche il chirurgo preciano Sigismondo Carocci rimase alla storia per aver operato nel XVII secolo la principessa di Mantova Eleonora Gonzaga, italiana di nascita e poi divenuta imperatrice, arciduchessa d’Austria e regina di Ungheria e di Boemia, dopo aver sposato Ferdinando II nel 1622.
C’è chi ritiene che queste figure professionali di chirurghi oftalmici, litotomi e castrini si sarebbero sviluppate non a caso nella Val Castoriana, grazie alla trasmissione orale ed empirica di antiche conoscenze tramandate di padre in figlio in campo anatomico e veterinario, dai cosiddetti norcini , come si chiamavano gli abitanti dell’antica città di Norcia, da sempre ritenuti i migliori allevatori di suini e per questo esperti nella castrazione e nella mattazione dei maiali.
Un’ultima curiosità riguarda i cerretani, ovvero gli abitanti di Cerreto di Spoleto da cui deriva il termine ciarlatani.
Non mancarono nel corso dei secoli falsi medici e chirurghi improvvisati, che spesso operavano nelle fiere e nei mercati come medici di piazza, una sorta di saltinbanchi, in arte ciarlatani, che girovagavano di paese in paese vendendo unguenti e magiche pozioni, spacciandoli a caro prezzo per farmaci miracolosi.
Questo mestiere particolarmente remunerativo si sarebbe cominciato a sviluppare proprio tra i monti e le valli del fiume Nera, da quando il clero avrebbe concesso agli abitanti di Cerreto di Spoleto (chiamati Cerretani) di bussare di porta in porta per chiedere la questua (ovvero l’ elemosina) a favore degli ospedali e dei lebbrosari.
Purtroppo la pratica della questua, seppur concessa ai Cerretani per raccogliere denaro a scopo benefico, finì presto per facilitare il passaggio ad un mestiere tutt’altro che lodevole: quello del “venditore di miracoli” che, per ovvi motivi di lucro, tanti illustri ciarlatani (da Cerretano a Ciarlatano il passo è breve!) cominciarono a praticare, girovagando in cerca di fortuna per l’Italia e per l’Europa, illustrando nelle piazze e nei mercati le proprietà medicamentose delle loro pozioni e vendendole come panacee per tutti i mali.
Antonella Bazzoli , 7 novembre 2013 – aggiornato il 24 ottobre 2023