C’era una volta Angizia
Nel piccolo borgo montano di Cocullo in provincia de L’Aquila, si svolge da secoli una festa religiosa originale ed unica nel suo genere, dove la devozione popolare si mescola al folklore e i riti della tradizione si rinnovano di anno in anno, trasportando i visitatori indietro nel temp, nel medioevo e ancora più indietro, fino all’epoca italica quando qui abitava l’antico popolo guerriero dei Marsi…
Sto parlando della Festa dei Serpari, un appuntamento di grande richiamo turistico, folklorico e religioso, che purtroppo anche quest’anno non si terrà a Cocullo, a causa dell’emergenza sanitaria Covid, ancora in corso nel nostro paese.
Proviamo allora a far rivivere la tradizionale festa abruzzese, cercando di risalire alle origini del culto, attraverso l’analisi delle fonti e dei reperti archeologici…
L’aspetto più spettacolare del corteo di San Domenico (eremita originario di Foligno, vissuto intorno all’anno 1000 tra Lazio e Abruzzo) è la presenza dei serpenti vivi che vengono portati in precessione insieme al simulacro del santo patrono.
Ogni anno i rettili vengono catturati dai serpari negli ultimi giorni di aprile, quando è facile trovarli nei boschi nei pressi delle loro tane, poichè ancora intorpiditi alla fine del letargo invernale.
I serpari li tengono per qualche giorno nelle loro case, in sacchi di tela, dandogli da mangiare e riservando loro ogni attenzione in attesa della festa del 1 maggio: subito dopo la celebrazione religiosa, il simulacro del santo esce dalla chiesa e si ferma sul sagrato ed è qui che i serpari sistemano i serpenti intorno alla testa e al collo della statua.
Poi il corteo sfila quindi per le vie del paese, con i rettili che si muovono lentamente, attorcigliandosi e scivolando sinuosi lungo le pieghe del nero manto e intorno alla barba e ai capelli posticci del santo.
E’ ancora viva la credenza che dalle forme assunte dal groviglio di serpenti si possano trarre auspici sui futuri raccolti e sull’andamento della stagione agricola.
Dopo la festa, i rettili verranno riportati sani e salvi presso le tane da cui sono stati prelevati, a dimostrazione del grande rispetto che i serpari di Cocullo hanno per i loro amici striscianti.
La festa e i suoi rituali si ricollegano all’arcaico culto dei Marsi per la dea Angizia. Con la diffusione del cristianesimo quei riti precristiani furono gradualmente abbandonati, nella Marsica come altrove, e cià avvenne spesso attraverso un lento processo di assimilazione, che attecchì più facilmente laddove nuove figure di martiri e di santi seppero far propri attributi, simboli e tradizioni già appartenuti a divinità locali preesistenti. Fu così che a Cocullo il culto medievale per San Domenico andò a sostituire definitivamente i culti precristiani, compreso quello per la dea Angizia.
Questa divinità femminile di origine frigia, un tempo venerata dal valoroso popolo dei guerrieri Marsi, si lega infatti strettamente al mondo ctonio dei serpenti, e la memoria del suo culto in qualche modo sopravvive nei riti praticati dai serpari di Cocullo all’inizio di maggio.
Nell’assistere da spettatori al rito dei serpari viene da chiedersi: perchè a Cocullo i serpenti sono considerati sacri e sono addirittura benedetti, quando nella tradizione giudaico-cristiana il serpente è invece considerato simbolo della tentazione, a partire dall’episodio del peccato originale?
Andando a scavare nelle consuetudini di quei popoli italici che un tempo abitavano le zone montuose dell’Abruzzo, scopriamo che il culto per i serpenti era qui praticato ancor prima che vi arrivassero i Romani, come dimostrano anche i ritrovamenti archeologici e diversi toponimi locali.
Basti pensare, ad esempio, al famoso manufatto della dea Angizia con in mano un rettile, rinvenuto nel bacino lacustre del Fucino, lungo le cui sponde gli antichi Marsi decisero di insediarsi.
Persino il moderno toponimo Luco dei Marsi (dal latino lucus che sta a significare “bosco sacro”, con riferimento alla radura nel bosco dedicata ad Angizia di cui parla anche Virgilio nell’Eneide) contribuisce a spiegare la familiarità e il rispetto che gli abitanti di Cocullo nutrono verso i loro amici rettili.
Il comune di Luco dei Marsi era anticamente un importante centro politico e religioso, sede di un santuario federale dei Marsi, e tale rimase fino a quando la guerra sociale degli inizi del I secolo a.C. (il cosiddetto bellum marsicum) avrebbe portato alla nascita del municipio romano di Anxa-Angitia (altro toponimo significativo).
Sappiamo che gli antichi Marsi, guerrieri valorosi e lottatori imbattibili, venivano ingaggiati dai Romani come gladiatori per la loro forza fisica. Sappiamo inoltre che in virtù delle loro abilità nell’utilizzare erbe a scopo terapeutico e nel preparare antidoti e veleni, i Marsi erano apprezzati e ricercati anche come maghi e guaritori.
Parlando dei vari popoli impegnati nella battaglia tra Turno ed Enea, Virgilio così descriveva un guerriero proveniente dalla Marsica: “Era gran ciurmatore e con gli incanti e col tatto ogni serpe addormentava. De gl’idri, de le vipere e de gli aspi placava l’ira, raddolciva il tosco, e risanava i morsi” (Eneide,VII, 1149-1153).
Secondo il greco Licofrone, e più tardi secondo Plinio il Vecchio, i Marsi avrebbero appreso i loro poteri taumaturgici dalla dea Circe, maestra per eccellenza nel manipolare le erbe e nell’incantare i serpenti.
Tutto ciò contribuì ad accrescere la fama dei Marsi come guaritori e cominciò a diffondersi persino una leggenda che li voleva immuni dai morsi velenosi.
L’ antica arte di ammaestrare i rettili, trasmessa di padre in figlio attraverso i secoli, si sarebbe così conservata fino ai giorni nostri, seppure tra continui adattamenti e trasformazioni.
Ma non finisce qui.
Il legame tra la dea, la cultura marsica e il culto ofidico si chiarisce ulteriormente anche alla luce del mito.
Tre erano infatti le figlie di Eete: Angizia, Medea e Circe. Delle tre sorelle soltanto Angizia ricevette però gli onori divini, in virtù della sua sapienza nell’arte della magia e dell’utilizzo delle erbe a scopo terapeutico.
Poteri magici, quelli di Angizia, che furono cantati anche dal poeta abruzzese Silio Italico, con questi suggestivi e impressionanti versi:
“Æetæ prolem Anguitiam, mala gramina primam monstravisse ferunt, tactuque domare venena, et lunam excussisse polo, stridoribus amnes frenantem, ac silvis montes nudasse vocatis” (Punicae,VIII, 498-501)
Versi che tradotti dal latino suonano così:
“Angizia, figlia di Eete, per prima scoprì le male erbe, così dicono, e maneggiava da padrona i veleni e traeva giù la luna dal cielo, con le grida i fiumi tratteneva, e chiamandole spogliava i monti delle selve” .